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Nel mondo dei podcast. Qualche consiglio

Mi sono avvicinata da poco al mondo dei podcast. Ho rotto il ghiaccio con una storia che mi ha fatto consumare il prato di casa che percorrevo per chilometri pur di avere una scusa per continuare ad ascoltare Veleno di Pablo Trincia. Ho proseguito smistando podcast che più si avvicinavano alle mie passioni, ai miei interessi. E così sono approdata alle Morgane di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri, ai libri consigliati in Copertina di Matteo B. Bianchi, alle lezioni di Storia del professor Alessandro Barbero e agli affari americani raccontanti in Da Costa a Costa da Francesco Costa. Chi può ormai svegliarsi la mattina senza ascoltare per prima cosa la sua rassegna stampa in Morning? Un’idea originale, molto ben confezionata, che gode della voce inconfondibile di Costa e delle sue analisi mai banali. Un punto per il Post al quale ho deciso,  proprio per questo motivo, di abbonarmi. 

Tanti podcast mi hanno informata, divertita, lasciata con il fiato sospeso, emozionata e fatto venir voglia di scovare nuove storie e portarle alla vostra attenzione. Come ho sempre fatto, attraverso un mezzo diverso e per questo ancor più stimolante. In attesa di farvi conoscere la mia creatura mi limito a darvi un consiglio. Nei giorni scorsi ho ascoltato varie cose, non tutte degne di nota. Il miglior podcaster italiano, a mio modesto parere, è Pablo Trincia. L’amore per le storie che racconta, il rispetto per le persone che intervista e la sensibilità con cui guida l’ascoltatore alla scoperta di mondi che affronta per primo con curiosità, lo rendono uno storyteller eccezionale. Ne è la prova il fatto che da quando dirige Chora Media non tutti i podcast che produce sono all’altezza dei suoi lavori più recenti, da Buio a Le guerre di Anna. 

Tra tutti il più riuscito è forse Proprio a me di Selvaggia Lucarelli che ha una voce altrettanto riconoscibile. Questa nuova stagione di Chora ha però preso il via con un podcast di tutto rispetto. Mi riferisco a “Un uomo chiamato Diabolik”, il cui titolo è dovuto al soprannome di Fabrizio Piscitelli, l’ultras della Lazio nonché noto narcotrafficante, uomo dai mille volti, freddato con un colpo di pistola alla testa il 7 agosto del 2019. 

Il podcast, di cui mancano all’appello le ultime due puntate, è stato (ben) scritto dai giornalisti Giovanni Bianconi e Mauro Pescio e ripercorre tutte le tappe della vita di un uomo morto apparentemente senza un perchè, un uomo dalle grandi passioni e forse da un talento messo anche a disposizione del crimine organizzato. Unica pecca è forse il racconto attraverso la voce di un attore, in questo caso quella di Francesco Acquaroli (Suburra; Alfredino – Una storia italiana). L’impostazione teatrale e l’eccessiva enfasi sottraggono autenticità ad una narrazione efficace, realizzata su più livelli, con tanti motivi di interesse, politico e sociale. 

Un uomo chiamato Diabolik è disponibile gratuitamente su tutte le piattaforme di ascolto. Sabato dovrebbero essere rilasciati anche gli ultimi due episodi. In attesa che Pablo Trincia ci delizi con il suo nuovo lavoro, ovvero un podcast dedicato al naufragio della Costa Concordia. Lo ha annunciato lui stesso e, secondo TV Blog, potrebbe uscire all’inizio del 2022 in occasione del decimo anniversario della tragedia. 

Stay tuned!

Il tramonto della democrazia: un saggio per sopravvivere alle elezioni

Stiamo per scoprire i risultati delle Elezioni Comunali 2021 e se c’è un libro che consiglio a tutti di leggere, per orientarsi in questo scenario politico, così rapidamente mutevole e il più delle volte desolante, è Il tramonto della democrazia di Anne Applebaum.

Applebaum è una giornalista, una storica e una saggista americana naturalizzata polacca, vincitrice del prestigioso premio Pulitzer nel 2004 per il saggio Gulag: Storia dei campi di concentramento sovietici

Nel suo ultimo saggio parte da un episodio di vita privata per allargare lo sguardo a ciò che è diventata la Polonia, sua terra d’adozione dopo il matrimonio con il politico Radoslaw Sikorski. 

La giornalista ripercorre la storia di questo paese e le scelte politiche che ne hanno favorito la deriva autoritaria. Attraverso una serie di esempi appropriati e un’analisi lucida e articolata sulle strategie utilizzate, Applebaum fa il giro dell’Europa, concentrandosi in particolare sull’Ungheria di Viktor Orban e sul governo inglese di Boris Johnson. Ovviamente ce n’è anche per l’America di Donald J.Trump.

Quello che teorizza è che presto il destino di questi popoli potrebbe toccare a noi. Che le nostre democrazie sono fragili non solo a causa del popolo bue alla ricerca di un capitano da cui farsi guidare ma soprattutto delle mosse di quella classe di politici e intellettuali (scrittori, giornalisti, diplomatici) che lei definisce “chierici”. Costoro, spesso carichi di risentimento nei confronti di una classe politica da cui non si sentono né rappresentati né valorizzati, finiscono per sostenere governi autoritari che gli garantirebbero posizioni migliori chiedendo in cambio una cieca fiducia.

Vi invito a farvi guidare dalle sue riflessioni per provare ad individuare anche nella nostra società i semi di quell’autoritarismo verso il quale, stando a quanto la storia ci insegna, saremmo tutti predestinati. Preziosi i suoi approfondimenti sull’uso delle fake news di cui si nutrono questi moderni regimi e sul nostro ruolo decisivo, che non dovremmo abdicare poiché sfiduciati dal presente. 

Sul finale la giornalista si concede un’appassionata chiamata alle armi, un appello a tutti coloro che hanno voglia di approfondire, di non lasciarsi abbindolare dalla propaganda strombazzante, all’onestà intellettuale di coloro che sanno ma fingono di non sapere. Il suo libro è vera una bussola in tempi così confusi e scoraggianti. Da non perdere. 

fortuna era solo una bambina

Ieri pomeriggio sono tornata al cinema. Frosinone, ore 18:10. I gestori sembravano quasi sorpresi di veder arrivare qualche spettatore, per darvi l’idea della desolazione che si percepisce. Mi auguro che in tante altre città d’Italia la situazione sia diversa ma prevedo tempi duri per le mie amate sale.

C’ho messo un po’ perchè i cinema nella mia zona dopo lo stop hanno riaperto a rilento, e direi anche comprensibilmente data l’incertezza sulla ripresa. I film vincitori degli Oscar li avevo già visti tutti e quindi ho aspettato che avesse finalmente spazio qualche novità.

La scelta è poi ricaduta su Fortuna, opera prima del regista Nicolangelo Gelormini, liberamente ispirato alla triste vicenda di Fortuna Loffredo, una bambina di sei anni che nel 2014, dopo essere stata ripetutamente abusata da un vicino di casa venne scaraventata dal terrazzo del suo palazzo situato all’interno del Parco Verde a Caivano, nella periferia di Napoli. Il suo aguzzino è stato condannato all’ergastolo.

Nei primi minuti del film si viene subito colpiti dallo sperimentalismo del regista, dalla ricerca dell’immagine, dall’inevitabile virata verso il genere horror vista la materia trattata. Poi però il film prosegue, il regista si compiace sempre di più (ha come maestro Sorrentino, abbiate pazienza) e lo stile diventa artificioso e ridondante.

Ma non è questo ad influenzare negativamente il mio giudizio nei confronti di questo film. Le prime pellicole che fanno riferimento all’abuso sui minori risalgono addirittura agli anni ’30, con M – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang, tanto per fare un celebre esempio. E da allora questo tema così scottante è stato trattato dai registi con audacia, ricercatezza, attenzione (tra gli ultimi Grazie a Dio di François Ozon, Il club di Pablo Larraín o Il caso Spotlight).

Gelormini non apporta un suo punto di vista originale alla storia di Fortuna. Mostra di avere solo una visione parziale degli eventi: la bambina incarna solamente una vittima, è un personaggio mono-dimensionale, algida e perennemente accerchiata da personaggi ambigui, complici, marci o semplicemente disperati. L’unica che potrebbe aiutarla è la psicologa interpretata da una Valeria Golino altrettanto imprigionata nello stereotipo della chioccia con un repertorio espressivo ormai limitato e fin troppo ripetitivo. Al di là di questo c’è solo un continuo indugiare sull’abuso e sulla morte imminente. Metà del film è ambientata su quella terrazza da cui precipiterà Fortuna e lo spettatore vive con angoscia il momento in cui quell’evento tragico si disvelerà davanti ai suoi occhi.

Voglio ricordare che nel 2017 Fabio Grassadonia e Antonio Piazza realizzarono un film bellissimo, liberamente ispirato alla storia altrettanto sfortunata di Giuseppe Di Matteo, un bambino che nel 1996 venne ucciso dalla mafia e sciolto nell’acido. Sicilian Ghost Story, questo il titolo, trovò una sua chiave per raccontare una storia atroce senza fare mai leva sul sensazionalismo (ri)costruendo invece l’immagine di un bambino in carne ed ossa con delicatezza e rispetto.

Ritengo che Fortuna sia invece un film crudele e ricattatorio. Che questo film non sarebbe mai stato possibile senza il suo legame ad una storia tanto dolorosa perchè come semplice finzione è una miscela di cose già viste, da Miss Violence ai fratelli D’Innocenzo passando per Garrone. Che Fortuna Loffredo non sia stata la stella polare del regista, come da lui dichiarato, ma uno strumento nelle sue mani. Fortuna Loffredo fu una bambina che conobbe l’inferno in terra, che non incontrò l’humana pietas e che, per quanto mi riguarda, continua a non incontrarla.