Liam Neeson: “Mi emoziona la verità”

«Le interviste? Sono il mio peggior incubo». Comincia così il mio incontro con Liam Neeson all’hotel InterContinental di Toronto. L’attore nordirlandese, 65 anni, è statuario, magro, ha una voce profonda. Con sé ha l’inseparabile thermos di tè inglese che ha sostituito alle sigarette dopo essere stato per anni un fumatore incallito. È un uomo cordiale, dotato di fascino e ironia, anche quando i suoi discorsi sembrano girare un po’ a vuoto. È sicuramente restio a parlare della sua vita privata, specie dopo la scomparsa della moglie Natasha Richardson avvenuta nel 2009 in seguito ad un incidente sugli sci. Ho l’impressione che Neeson abbia poco a che vedere con i personaggi romantici, malinconici, talvolta alteri, che ha interpretato sul grande schermo. «I critici non hanno amato il film? Fuck off», mi risponde con un lieve sorriso.

Il film in questione è The Silent Man (in sala dal 12 aprile) dedicato alla storia di Mark Felt, l’agente FBI soprannominato Gola Profonda dopo aver aiutato i giornalisti del Washington Post a far esplodere lo scandalo Watergate. Le sue schiaccianti rivelazioni costrinsero il presidente Richard Nixon a rassegnare le dimissioni nel 1974 e cambiarono per sempre la storia politica americana.

Perché ha scelto di interpretare Mark Felt?

«Mi ha contattato il regista Peter Landesman. Non lo conoscevo. Ho letto alcuni dei suoi reportage da giornalista e poi ho visto il suo secondo film, Zona d’ombra, che mi ha conquistato nonostante sia ambientato nel mondo del football che mi annoia a morte. Piuttosto che guardare una partita preferirei attendere che si asciughi la vernice».

Per lei Felt è un eroe?

«Lo ammiro per ciò che ha avuto il coraggio di fare. Ma non credo che le sue azioni fossero inizialmente motivate da un atto di eroismo. Era devastato per non essere stato promosso dopo la morte di J. Edgar Hoover di cui era il braccio destro sebbene per trent’anni avesse fedelmente servito l’FBI. La  Casa Bianca gli preferì un comandante di sommergibili, suppongo che questa scelta lo avesse profondamente ferito e offeso».

E lei si reputa un idealista?

«No, non penso. Ho sempre guardato al bicchiere mezzo vuoto. Ma credo nella verità delle storie che interpreto».

Quali erano i suoi ricordi del Watergate?

«Ne sapevo poco perché all’epoca dei fatti ero in Irlanda e avevamo anche noi le nostre questioni interne da risolvere».

Ha colto qualche parallelo con l’attuale situazione politica americana?

«Sul set ne abbiamo parlato molto anche se ancora non sapevamo che Trump sarebbe diventato Presidente. Il Watergate è stato deleterio per l’idea di democrazia. Sono certo che gli americani in quel momento ne avessero abbastanza, come durante le ultime elezioni. Immagino che dalle indagini sul Russia gate ne usciranno fuori delle belle».

Cos’ha di diverso Mark Felt rispetto agli altri personaggi storici da lei interpretati. Penso a Oskar Schindler, a Michael Collins…

«Mi ha colpito la riservatezza di Mark Felt. La netta divisione tra la sua vita privata e quella professionale. Quasi nessuno poteva dire di conoscerlo veramente. Era indecifrabile e per me, che spero di essere un attore emotivo, è stato difficile coglierne l’essenza. Mi è dispiaciuto che molte delle scene che ho girato con Diane Lane (che nel film interpreta la moglie di Felt, Audrey Robinson, n.d.r.) siano state tagliate. Avrebbero aiutato il pubblico a capire che padre e marito amorevole fosse».

In effetti si nota una certa sintonia tra lei e Diane Lane.

«Diane è una grande attrice, una professionista seria e preparata…e poi ha un lato B eccezionale, da fare invidia a una ventenne!».

Nel 2008 ha avuto un grande successo con il film d’azione Taken – Io vi troverò. È cambiato il suo pubblico? Chi le chiede un autografo oggi quando va a fare la spesa?

«Mi lusinga il fatto che a 65 anni mi chiedano ancora di girare film d’azione. Ma non so dirle se i fan siano cambiati. Anche perché a fare la spesa non ci vado. Ci sono delle persone che ci vanno al posto mio (ride, n.d.r.)».

Originariamente pubblicato su Vanity Fair

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