“Tonino e Graziella si sposano. E chi sa tace di fronte alla loro grazia che non vuole sapere. E invece il silenzio è colpevole e allora l’augurio sia: al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore”. Con queste parole nel 1963 Pier Paolo Pasolini concludeva Comizi d’amore, documentario ancora insuperato sulle abitudini sessuali degli italiani.
Un tabù che Pasolini affrontava con sincerità e candore. Non sono certa che la situazione sia molto cambiata da allora. Dopotutto alla legge sulle unioni civili si risponde ancora con degli aberranti family day e l’Italia, secondo i più recente dati ILGA (The International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association) è tra i paesi più omofobi d’Europa.
Questo è il 2018, l’anno delle quattro nomination agli Oscar per Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino. Film bellissimo, una co-produzione internazionale con attori stranieri certo, ma pur sempre realizzato da un regista italiano. Eppure Medusa ha pensato bene di richiamarci bruscamente alla realtà.
Il 1° marzo arriva in sala Puoi baciare lo sposo, quinto film del regista Alessandro Genovesi. La trama è molto semplice. Paolo (Salvatore Esposito) e Antonio (Cristiano Caccamo) si amano, convivono a Berlino e hanno deciso di sposarsi. Tornano in Italia per condividere la bella notizia con i genitori di Antonio ma il padre, Roberto (Diego Abatantuono), non ha nessun intenzione di approvare le nozze nonostante la moglie Anna (Monica Guerritore) minacci di chiedere il divorzio.
L’omosessualità al cinema fa ancora notizia, specie se uno dei due gay è interpretato nientemeno che da Genny Savastano di Gomorra – La serie. E c’è già chi ha catalogato Puoi baciare lo sposo come un film “necessario”. Secondo la Guerritore i protagonisti sono “personaggi scorretti che escono dai cliches” ma il regista mette le mani avanti affermando che “un film non è una proposta di legge”.
La verità è che a 40 anni da Il vizietto il massimo che si riesce a fare in una commedia italiana è creare due personaggi omosessuali del tutto anonimi accompagnati da un corteo di macchiette (l’autista che ama travestirsi da donna, la coinquilina romantica, l’ex fidanzata stalker, la mamma chioccia, ecc..) in un contesto quasi avulso dalla realtà. Totale è l’assenza di intimità: i due si concederanno per tutto il film un timido e casto bacio sulle labbra. Presenti invece una buona dose di buonismo, il tono predicatorio e l’immancabile happy ending con un numero musicale da dimenticare.
Da apprezzare il lavoro in sottrazione di Salvatore Esposito (la vera sorpresa del film per spontaneità e naturalezza) e di Diego Abatantuono (qui in una veste piuttosto inusuale). Per il resto il film non è né volgare né irritante come le tante commedie italiane viste negli ultimi anni. È innocuo, il che è forse ancora più grave. È composto, trattenuto, controllato: scrive Paolo Mereghetti promuovendolo sulle pagine del Corriere. E lo capisco, d’altronde siamo ancora reduci dai toni esasperati e i personaggi urlanti del film di Muccino!
Negli USA ammalia l’eleganza di Carol, di A Single Man, in Francia turba l’irriverenza e il realismo de La vita di Adele, in Gran Bretagna divertono e commuovono i minatori che si schierano dalla parte dei gay nella commedia Pride. Qui da noi sembra il caso di rimpiangere gli omosessuali complessi e affascinanti interpretati negli anni Settanta e Ottanta da Ugo Tognazzi (Il vizietto, Splendori e miserie di Madame Royale), Marcello Mastroianni (Una giornata particolare) o Philippe Noiret ne Gli occhiali d’oro di Giuliano Montaldo. Perché no, con tutto il rispetto, Ferzan Özpetek non è il nostro Pedro Almodóvar.
Toccherebbe riguardarsi il documentario Felice chi è diverso di Gianni Amelio per rifare i conti con la nostra storia e con la nostra società omofoba, di ieri e di oggi. Dopotutto Il padre d’Italia di Fabio Mollo (purtroppo distribuito lo scorso anno con scarso successo) con Luca Marinelli e Isabella Ragonese è un bel film. Cerco di ripensarci mentre leggo sconfortata quanto scritto da Camillo Langone qualche giorno fa su Il Foglio in seguito alla visione di Chiamami col tuo nome.
“I film monosessuali mi fanno l’effetto delle tavolate monosessuali, le cosiddette serate libere che le coppie un po’ tristi reciprocamente si concedono, con lui che esce con gli amici e lei con le amiche. Sensazione di tedio, monotonia, mancanza di vero scambio, insomma infecondità”.
Urgono nuovi comizi d’amore!
Pubblicato originariamente su Esquire Italia