L’arte di essere Stanley Tucci

Straordinariamente versatile, colto, divertente, appassionato: Stanley Tucci, 57 anni, è da almeno venti anni un punto fermo a Hollywood. I blockbuster (su tutti Hunger Games), le piccole produzioni indipendenti e i cinque film da regista ci hanno rivelato la sua capacità di essere quasi sempre l’uomo giusto al posto giusto.

Le sue origini italiane hanno contribuito a generare una grande passione per l’arte, specie quella rinascimentale, e l’ossessione per il buon cibo: nel 2012 ha perfino pubblicato un libro di ricette, The Tucci Table. Ma all’inizio della sua carriera, nei primi anni ottanta, ha rischiato di rimanere incastrato nello stereotipo del gangster italiano. Lo stesso ruolo gli è stato proposto più e più volte. Ne sono una prova le parti nelle serie TV Crime Story e Miami Vice, e più avanti nei film Billy Bathgate Era mio padre.

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Dal rifiuto dei cliché nasce Big Night, film scritto e diretto dallo stesso Tucci nel 1996, che costituisce un chiaro omaggio alle sue origini, del tutto fuori dagli schemi. Poi arrivano finalmente il ruolo del giornalista di gossip Winchell (nell’omonimo film) e del gerarca nazista Adolf Eichmann in Conspiracy: entrambi gli valgono la vittoria del Golden Globe; due film con Meryl Streep (Il diavolo veste PradaJulie e Julia), Amabili Resti (per cui viene nominato all’Oscar) e un capolavoro dal titolo Spotlight.

Nei giorni scorsi lo abbiamo incontrato a Roma, è venuto a presentare il suo quinto film da regista: Final Portrait – L’arte di essere amici. Di persona è un uomo molto distinto, attento al proprio interlocutore, non ha paura di dire ciò che pensa. “È sempre molto difficile trovare il modo di finanziare i propri film. Per Final Portrait (un progetto che aveva in cantiere da circa tredici anni) ho impiegato due anni. Dovrò pur mangiare. Ho 4 figli e un mutuo da pagare. A questo servono i blockbuster!”.

Final Portrait

Final Portrait (in sala dall’8 febbraio 2018) è basato sulla vera storia del rapporto di amicizia che nacque tra l’artista svizzero Alberto Giacometti (Geoffrey Rush) e uno dei tanti modelli che accettarono di posare per lui, ovvero il giovane critico americano James Lord (Armie Hammer). I due si incontrano a Parigi nel 1964. Lord, suo grande ammiratore, si sente onorato di aver ricevuto questa opportunità. Almeno fin quando i tre giorni inizialmente concordati per la realizzazione del ritratto diventeranno tre settimane.

Giacometti è un uomo burbero e volubile, i suoi capricci vengono costantemente assecondati dalla moglie e dal fratello, e trascorre le sue giornate dividendosi tra sculture, dipinti e la compagnia di una giovane prostituita. Per qualche strano motivo tra lui e Lord si crea una complicità che, però, il film non ha la capacità di approfondire. Tucci si crogiola sulla bravura di Rush, che riesce da solo ad intrattenere lo spettatore strappandogli frequenti risate.

“Ho scelto questo episodio della vita di Giacometti perché non amo i biopic canonici. Trovo che spesso siano i dettagli a farci scoprire l’essenza delle persone”, racconta Tucci. “Il film ha molto a che vedere con le mie origini italiane. Mio padre era un artista. Quando avevo 12 anni ci siamo trasferiti a Firenze dove ho vissuto per un anno. È stato in quel periodo, uno dei più belli della mia vita, che ho sviluppato il mio amore per l’arte”.

Alberto Giacometti è stato uno dei più grandi artisti del 20esimo secolo. Le sue sculture umanoidi hanno incarnato perfettamente il clima della disperazione esistenziale del dopoguerra, come riporta il catalogo dell’ultima retrospettiva che gli ha dedicato il Tate Modern di Londra. Stanley Tucci, dal canto suo, è uno dei compagni di squadra più amati del team Hollywood, una presenza solida e carismatica. Insomma, come ha scritto Jonathan Heaf, “troppo intelligente per essere solo un attore”.

Pubblicato originariamente su Esquire Italia

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