Premio Strega: storia di un’occasione mancata

Negli Stati Uniti hanno il Pulitzer. Nel Regno Unito il Booker Prize. In Francia il Goncourt. In Italia il premio letterario più prestigioso prende il nome da un liquore, lo Strega. Dalla sua nascita, nel 1947, ad oggi la parola d’ordine è stata rinnovamento. Ma settant’anni dopo quello che Maria Bellonci definì “un contributo essenziale alla rinascita culturale del Paese” si trova in una fase stagnante.

Un’anomalia? Macché! La gestione dello Strega, ridotto a semplice vetrina per autori che hanno bisogno di vendere qualche copia in più del previsto, rispecchia la disfunzione di un Paese in cui tutto si deve riformare e nulla si riforma. Di un Paese in cui “con la cultura non si mangia”.

Prendete i David di Donatello, gli Oscar del cinema italiano che per anni la Rai ha mortificato con alcune tra le cerimonie di premiazione più brutte con cui la settima arte sia mai stata omaggiata. Da un paio d’anni Sky ne ha risollevato le sorti con la conduzione social dello spigliato Cattelan che ha dato il via all’operazione svecchiamento. E allo Strega chi ci pensa? Prima della sua scomparsa il linguista Tullio De Mauro si impegnò in una seria revisione del regolamento nel tentativo di arginare lo strapotere delle grandi casi editrici quasi sempre trionfanti.

Quest’anno lo Strega raschia il fondo con una cinquina di finalisti che dobbiamo augurarci non rappresentino il reale stato di salute della nostra letteratura. A contendersi la vittoria che verrà annunciata nel corso della soporifera cerimonia del 6 luglio dovrebbero essere Le otto montagne di Paolo Cognetti e La più amata di Teresa Ciabatti. Nonostante il martellante endorsement della stampa che dall’autunno ad oggi ha spacciato il libro della Ciabatti (edito Mondadori) come un piccolo capolavoro contemporaneo al momento in vantaggio sarebbe lo scrittore/eremita milanese.

Più che la curiosità di conoscere il responso della votazione finale la lettura di questi due libri genera stupore: mediocrità, istruzioni per l’uso. Alle parole di questi scrittori non corrispondono reazioni: emozioni, idee, curiosità. Giace la capacità di approfondimento, muore la riflessione, latita l’empatia. Questo il risultato di una scrittura senza vita. Due romanzi parzialmente autobiografici che ci raccontano in modo diverso due padri che si fanno notare più per l’assenza che per la presenza.

Da una parte Cognetti che pontifica sulla “montagna scuola di valori” palcoscenico ideale di un confronto tra fratelli (di adozione) di cui si è scritto talmente tanto che o hai la penna di Roth o Moehringer oppure sarebbe più opportuno dedicarsi a ben altra attività. Non sorprende che questo testo si sia già aggiudicato lo Strega Giovani, scelto da una giuria di studenti. Gli insegnanti di scuola media faranno a gara per assicurarselo per l’ora di narrativa. A ciascuno il suo.

Dall’altra La più amata, Teresa Ciabatti, che ha avuto la fortuna di essere la figlia di un esponente della P2. Nel libro scalpita affinché le attenzioni siano tutte rivolte a lei (una volta tanto). “Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni e non trovo pace”. Ma è lui il solo e unico protagonista di un romanzo possibile. Il Professore. E’ lui che intriga. Il resto (il libro intero) sono solo gli sfoghi di una donna incompiuta, come tante altre, che fatica ad interpretare il suo passato tanto quanto il suo presente. Prossimamente il film della Lucky Red. Cannes stiamo arrivando…

In questo scenario non dovrebbe scandalizzare la bocciatura dell’idea di assegnare un Premio Strega alla Memoria di Curzio Malaparte a sessant’anni dalla scomparsa. La petizione era stata firmata da un centinaio di addetti ai lavori. Niente da fare. Per il Presidente Giovanni Solimine il premio postumo avrebbe solo un significato: sconfessare la giuria che nel 1950 lo volle perdente a confronto con Cesare Pavese. Staremo mica scherzando? C’è perfino chi si permette di confondere il genio, l’imprevedibilità, il cinismo, il fervore dell’autore de La pelle con il conformismo, l’ipocrisia, la banalità, l’immobilismo, marchi di fabbrica del premio?

Nel mentre, Matteo Nucci (in cinquina con il trascurabile “E’ giusto obbedire alla notte”) ha rifiutato di scrivere un racconto per la Toyota. Afferma di non comprendere il nesso tra la partecipazione al premio e la pubblicità agli sponsor da parte degli autori. Roba da matti!

Originariamente pubblicato su GQ Italia

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