«Penso di essere gay nell’arte ed etero nella vita», con questa dichiarazione, in un’intervista rilasciata al New York Magazine, James Franco alimentava i dubbi sulla sua presunta omosessualità, ingigantendo l’aura di mistero che circonda la sua vita privata. Se da un punto di vista professionale l’attore californiano riesce a tenere dei ritmi impareggiabili con innumerevoli progetti televisivi e cinematografici e una costante (onni)presenza ai principali festival internazionali, effettivamente non molto è dato sapere della sua persona.
Provocare è chiaramente uno dei suoi obiettivi. E non rinuncia a farlo neanche in King Cobra, l’ultimo film, in ordine di tempo, in cui lo vediamo protagonista. Si tratta della sua seconda collaborazione con il giovane regista Justin Kelly che per la sua opera d’esordio, I am Michael, l’aveva convinto ad interpretare Michael Glatze, un attivista gay che rifiutò la propria natura omosessuale per farsi prete.
In King Cobra (dal 21 ottobre nelle sale americane) Franco rimane fedele alla sua definizione – gay nell’arte, etero nella vita – nei panni dell’aspirante produttore di gay porn Joe che, insieme al fidanzato/musa Harlow (Keegan Allen) vorrebbe strappare l’avvenente Brent Corrigan (l’ex star Disney Garrett Clayton) alla concorrenza di Kocis (un magnate dell’industria sotto mentite spoglie interpretato Christian Slater – già inquietante presenza in Mr Robot).
La rivalità si risolverà con l’efferato omicidio raccontato nel libro Cobra Killer, da cui tra inspirazione il film di Kelly, allievo di Gus Van Sant, che annovera tra i suoi riferimenti John Waters e Pedro Almodóvar. Sebbene agli occhi di chi scrive il film si limita ad essere una parodia dell’industria pornografica e del carrierismo più sfrenato, il regista mi assicura che anche l’eros è una componente importante del suo lavoro e che risulterà lampante agli occhi di un pubblico omosessuale.
«Io e James siamo entrambi attratti dalle storie scandalistiche», racconta in occasione della première europea al Festival di Londra. «Nè questo film né il precedente avrebbero mai visto la luce se non fosse stato per il suo contributo», sottolinea Kelly lodando la generosità di Franco che non mostrerebbe mai atteggiamenti da prima donna sul set.
Non sarà un gran film questo King Cobra – o più semplicemente «l’ennesimo sacrificio per l’arte di Franco», come lo definisce Variety – ma l’impressione è che lo spavaldo ventitreenne che vinse il suo primo Golden Globe grazie ad un’insuperabile versione di James Dean si sia definitivamente trasformato in un artista maturo che opera delle scelte sempre più precise e consapevoli.
Tra una trasposizione di Stephen King (22.11.63) e una di John Steinbeck (In Dubious Battle) o di William Faulkner (As I Lay Dying, The Sound and the Fury), Franco trova il tempo di scrivere libri, poesie, recensioni e supportare i colleghi in erba con le idee più disparate e provocatorie. È suo il perfetto identikit del workaholic, il termine con cui gli anglofoni definiscono chi è totalmente dipendente dal lavoro.
«Se chiedi a James di andare in vacanza non attrai minimamente la sua attenzione ma se gli suggerisci l’idea per un soggetto cinematografico è il primo a drizzare le orecchie. Credo che lavorare sia il suo unico modo di socializzare», racconta non a caso Seth Rogen con cui Franco condivide la passione per le commedie demenziali.
Il loro The Interview fu addirittura al centro di una controversia internazionale a causa dell’esilarante parodia del leader nord-coreano Kim Jong Un. Senza contare le reazioni ai suoi innumerevoli selfie e il suo uso compulsivo di Instagram. «L’attenzione oggi è la nostra principale moneta di scambio», si giustifica Franco in un saggio scritto per il New York Times.
Se non ne avete abbastanza vi suggerisco di dare un’occhiata ad uno dei suoi progetti meno pubblicizzati, il docufilm Interior.Leather Bar. in cui immagina di poter rigirare i famosi 40 minuti di Cruising di William Friedkin censurati e andati perduti. In quel film un giovane e inedito Al Pacino interpretava un agente di polizia infiltrato nel mondo dei club per omosessuali con lo scopro di risalire all’identità di un serial killer.
Nel film James Franco, con il suo fare un po’ sornione, sostiene di essere stanco di una mentalità che associa il sogno d’amore o una notte di sesso alla sola immagine di un uomo o di una donna e di voler fare in modo che questo cambi.
«Fin quando racconterò storie gay non avrò nessun problema ma sono sicuro che se volessi girare una love story non omosessuale, in quanto regista gay non sarei sicuramente la prima scelta», chiosa Justin Kelly, forse aiutandoci a comprendere una volta e per tutte le scelte talvolta bizzarre di Franco.
Pubblicato originariamente su Vanity Fair Italia