Amanda Knox in tv: quelle lacrime che lasciano impassibili

“O sono una psicopatica travestita da pecora, o sono voi”, con queste parole comincia il racconto di Amanda Knox, protagonista dell’omonimo documentario che Netflix ha deciso di dedicare al celebre caso di cronaca nera. Era il 1° novembre 2007 quando il corpo senza vita di una giovane studentessa inglese, Meredith Kercher, viene rinvenuto nella sua casa di Perugia, la location scelta per il suo Erasmus.

Per il brutale omicidio furono inizialmente indiziati la studentessa americana Amanda Knox, sua coinquilina, e Raffaele Sollecito, che da pochi giorni frequentava assiduamente. Le versioni contraddittorie fornite alla polizia dalla coppia danno vita ad un iter giudiziario infinito e travagliato, un processo mediatico senza precedenti e una caccia alle streghe che troverà in Amanda la vittima preferita.

Proprio su quest’ultimo aspetto della vicenda si concentra il bel documentario di Rod Blackhurst e Brian McGinn che non offre un ritratto apologetico della principale indiziata dell’assassinio, bensì un’attenta e brillante analisi di quanto la stampa scandalistica e la spasmodica curiosità popolare possano influenzare il regolare svolgimento di un processo.

Dopo The Jinx, Serial e Making a Murderer, passando per American Crime Story sul caso O.J.Simpson, il genere crime si arricchisce di un nuovo capitolo. Come dimostra la recente intervista rilasciata da Rudy Guede, (al momento l’unico condannato per l’omicidio di Meredith), a Franca Leosini, il clamore per la tragedia perugina non accenna a diminuire a quasi dieci anni dall’accaduto. Le immagini di repertorio, le intercettazioni telefoniche, le riprese dalla scena del crimine riaccendono il ricordo di uno dei crimini più sconvolgenti della storia recente.

Il documentario cede la parola ai diretti protagonisti. Ad un’Amanda Knox che tenta (invano) di stabilire un rapporto di empatia con lo spettatore mentre è intenta a preparare polpette nel suo tetro appartamento di Seattle. A Raffaele Sollecito, ancora incapace di esprimersi in un inglese comprensibile.

A Giuliano Mignini, il pm che pur avendo guidato le indagini più deplorevoli della storia, si vanta del proprio intuito alla Sherlock Holmes. E al giornalista del Daily Mail Nick Pisa che ride compiaciuto del suo lavoro per il noto tabloid britannico che, dal giorno dell’omicidio in poi, non ha smesso di manipolare l’opinione pubblica calunniando in più di un’occasione la Knox.

Le sue abitudini sessuali (o presunte tali), il suo look, il carattere ribelle (“era un po’ anarcoide”, afferma singolarmente Mignini): nulla che la riguardasse non è stato oggetto di pubblica vessazione. “Rudy Guede? La sua storia non interessava a nessuno. L’attrazione del processo era Amanda”, pontifica spavaldo Pisa.

Pur non essendo esenti da colpe, ognuno continua a perorare la propria causa in un tutti contro tutti ridicolo e spiazzante (“Chi si credono di essere gli americani per impartirci lezioni di giurisprudenza”, si domanda stizzito uno degli inquirenti scatenando l’ilarità dello spettatore).

Chi ha ucciso Meredith Kercher? Amanda è davvero implicata nell’omicidio? Non sono questi i quesiti a cui l’incisivo documentario tenta di rispondere. Ma piuttosto: chi ha privato le parole giustizia e dignità del loro significato? Ne consegue un’operazione talmente avvincente che, secondo alcuni critici, avrebbe perfino meritato l’approfondimento seriale. Sarebbe stato troppo.

Si ride tanto guardando il documentario Amanda Knox, non ci si scandalizza delle parole né delle azioni di nessuno, si rimane impassibili dinanzi alle lacrime di Amanda e basta una sola inquadratura del volto visibilmente provato della madre di Meredith per essere permeati da un’indicibile tristezza. Il dolore di chi è costretto a confrontarsi, in solitudine, con la realtà.

Pubblicato originariamente su Vanity Fair Italia

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