Il messaggio che arriva dal Festival è forte e chiaro. Il cinema, da Clooney a Penn, si schiera su posizioni molto lontane da quelle del tycoon. Però sa raccontarle bene solo in conferenza stampa
Uno dei grande protagonisti di questa edizione del Festival di Cannes, benché assente, è stato Donald Trump. Poche, pochissime le conferenze o i meeting in cui il suo nome non è stato (ab)usato dai presenti, specie dai divi hollywoodiani.
Il primo ad inaugurare la campagna anti-Trump è stato George Clooney che presentando Money Monster ha dichiarato di non porsi il problema di una sua eventuale presidenza: “Sono sicuro che questo non avverrà mai, alle urne gli americano dimostreranno di non avere paura, come hanno sempre fatto”. Dagli States non si è fatta attendere la piccata risposta del Tycoon: “George Clooney non è Cary Grant!”, ha esclamato Trump liquidando il divo come un attore di quart’ordine.
Sempre dalla competizione del festival anche Joel Edgerton, protagonista di Loving, film su un matrimonio interrazziale, ha detto la sua sull’attuale situazione socio-politica statunitense. Nonostante l’ambientazione di Loving sia la Virginia di fine anni Cinquanta l’attore australiano non ha esitato a fare parallelismi con gli USA di oggi. “Quello che accade tra due persone in buona fede prescinde dalla loro identità, dalla razza o dalla religione. Mi sorprende sempre quanto le persone si sentano in dovere di giudicare”, ha affermato senza pronunciare il fatidico nome.
Chi ha detto la sua senza peli sulla lingua è stata Susan Sarandon nel corso dell’incontro con Geena Davis, una sorta di reunion di Thelma & Louise di cui ricorre il venticinquesimo anniversario. “Tutto ciò che Trump teorizza non avverrà mai. I musulmani non saranno deportati e sono certa che non vincerà le elezioni”, ha dichiarato l’attrice newyorkese. “Quello che mi preoccupa davvero è il danno che quest’uomo sta arrecando all’America, è evidente. Ci sta ridicolizzando e sta legittimando razzismo e omofobia come se non ci fosse nulla di male nel mostrarsi violenti.”
Anche Frank Underwood ha avuto da ridire. Kevin Spacey, ospite dell’amfAR Gala in Riviera, non ha risparmiato frecciatine al candidato presidente. “Non penso che a Donald Trump possa piacere il Festival di Cannes. I film in concorso contengono le due cose che lui detesta maggiormente: gli stranieri e la lettura”, ha scherzato l’attore de I Soliti Sospetti aggiungendo: “Forse mi sbaglio, d’altronde in Riviera ci sarebbero così tanti casinò da mandare in bancarotta!”.
Asif Kapadia, regista di origini indiane vincitore del premio Oscar per il documentario dedicato a Amy Winehouse, ha lanciato perfino un appello agli americani: “Se volete che io continui a lavorare nel vostro paese allora boicottate Trump altrimenti potrei non avere neanche il permesso di muovermi liberamente”.
Se dichiarazioni, ammonimenti e implorazioni varie non vi sembrano sufficienti sappiate che Sean Penn ha realizzato addirittura un film per sensibilizzare il pubblico sulla questione rifugiati ed affossare definitivamente il temibile magnate.
Il suo (bruttissimo) The Last Face, con protagonisti Charlize Theron e Javier Bardem, è un melodramma ambientato in Liberia che racconta la love story di due medici senza frontiere alle prese con gli atroci traumi della guerra.
Anche in conferenza stampa Penn non ha dimenticato di menzionare Trump: “Proprio mentre parliamo migliaia di persone subiscono bombardamenti. E’ giusto fare dell’intrattenimento ma se è sinonimo di Donald Trump allora mi dissocio!”.
Insomma il messaggio che arriva da Cannes è forte e chiaro. I cineasti stanno disperatamente tentando di sabotare la campagna elettorale di Trump. Ma siamo sicuri che l’ostentato livore da parte dei professionisti dell’intrattenimento sia la strada giusta per arginare un animale da palcoscenico come Trump?
Per quanto brutale e indifendibile Trump gioca sulla vere frustrazioni di una parte della società americana sulla quale Hollywood preferisce bypassare. I commenti di attori e registi incriminano solo e sempre lui, emblema di un degrado culturale dal quale sembra sempre opportuno prendere le distanze, e mai il suo lungo seguito.
A giudicare dai film americani visti quest’anno al festival, da Money Monster a Loving (fatta eccezione per l’incantevole Paterson di Jim Jarmusch) oltreoceano si preferisce aderire al perbenismo e alla retorica, mezzi che potrebbero avere un effetto totalmente opposto a quello desiderato e consegnare il paese direttamente nelle mani di Trump. Chi scrive si augura la sua mancata elezione quanto la fine di quest’assurda fase di indignazione generale.
Pubblicato originariamente su GQ Italia