Cynthia Nixon: «Più voce alle (nostre) storie gay»

Il successo planetario di Sex and the City non ha trasformato Cynthia Nixon alias Miranda Hobbes in una diva. I suoi modi di fare ricordano molto quelli del suo personaggio: è la più sobria delle amiche di Carrie ma non la meno inquieta. Dopo la fine della serie la Nixon, che ad aprile compirà cinquant’anni, ha prediletto il teatro e il cinema d’autore sviluppando un’identità artistica sempre più lontana dall’immaginario patinato dello show.

Anche la sua vita privata è stata piuttosto movimentata: dopo la fine del suo matrimonio con Danny Mozes, nel 2004 l’attrice newyorkese ha reso pubblica la sua relazione con l’attivista Christine Marinoni, che di recente è diventata sua moglie e madre del suo terzo figlio.

In questi giorni Cynthia Nixon è ospite della Berlinale dove ha riservato al pubblico l’ennesima sorpresa: una performance da applausi nei panni della poetessa Emily Dickinson in A Quiet Passion, nuovo film di Terence Davies.

Nel ruolo di Emily Dickinson lei risulta estremamente credibile. Quali sono state le sue fonti di ispirazione?

«Prima di cominciare le riprese del film ho letto molte biografie, le sue poesie e le sue lettere. Molte delle cose che succedono nel film sono frutto di un dettagliato lavoro di ricerca. Emily Dickinson è una donna con cui è molto facile identificarsi, al contrario di altre figure letterarie come Shakespeare».

La vita di questa poetessa è stata costellata da tante sofferenze che l’hanno spinta ad un progressivo isolamento dal mondo. Che cosa l’ha commossa di più?

«Mi ha reso molto triste constatare quanto fosse infelice negli ultimi anni della sua vita. Oltre alla partenza di Charles Wadsworth, l’uomo di cui si era probabilmente innamorata, furono molte le cose che la resero vulnerabile e che la spinsero ad isolarsi ancora di più. Quegli stessi dispiaceri la ispirarono a tal punto che in quel periodo scrisse quasi una poesia al giorno. Eppure era talmente disperata e consumata dalla malattia e dalla solitudine che fece promettere alla sorella di bruciarle tutte, credendo che quel lavoro fosse fine a se stesso».

La considera un’antesignana del femminismo?

«Io mi ritengo una femminista ma non credo che lei si definirebbe mai tale. C’erano molte cause che le stavano a cuore, come l’abolizione della schiavitù dei neri d’America, ma non ha mai lottano per cambiare lo stato delle cose. Non era nella sua indole. Coltivava la sua indipendenza nei confini della casa paterna. Di sicuro non sarebbe mai diventata una suffragette!».

Dai dialoghi di A Quiet Passion emerge una forte critica alla società americana, all’epoca considerata ipocrita e bigotta. Quanto è cambiata da allora?

«Siamo ancora molto sessisti e misogini purtroppo! Fortuna che i mariti non abbiano più l’esclusivo potere decisionale. In quegli anni l’uomo comandava e la donna aveva solo il diritto di dire sì o no, spesso neanche quello».

Dopo Sex and the City lei ha girato diversi film in costume. È una scelta mirata per allontanarsi da quel mondo?

«In un certo senso sì. Trovo che il nostro ritmo di vita oggi sia diventato estremamente frenetico. Tornare indietro nel tempo mi aiuta a rivolgere uno sguardo più concreto alla realtà quotidiana e a ricordare ciò che conta davvero nella vita».

Non crede che gli amanti di Sex & the City saranno sorpresi nel vederla in queste vesti?

«Credo di sì ma ho scelto questo ruolo a prescindere perchè sono occasioni che ti capitano una sola volta nella vita».

So che glielo avranno chiesto tante volte ma c’è ancora speranza per una reunion?

«Nel corso delle stagioni abbiamo apportato il nostro contributo tentando di liberare il linguaggio televisivo dai diversi taboo legati al sesso. Non credo che ci sia più bisogno di Sex and the City nell’attuale panorama televisivo ma mai dire mai».

Un’ultima curiosità: anche lei, in quanto attrice gay, si sente discriminata dalle decisioni dell’Academy?

«Credo che l’industria cinematografia abbia un terribile bisogno di favorire le diversità, dare voce a più storie gay così come a più attori afroamericani, asiatici o ispanici».

Pubblicato originariamente su Vanity Fair Italia

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