In venticinque anni di carriera i fratelli Coen, i registi più anticonformisti di Hollywood, non hanno mai deluso le aspettative. Potrebbero averlo fatto con Ave, Cesare!, la loro ultima opera d’arte scelta per inaugurare la 66esima edizione della Berlinale. Proprio stamattina sono atterrati nella capitale tedesca gli attori del loro cast stellare, da George Clooney a Josh Brolin, da Tilda Swinton a Channing Tatum. Mancano Scarlett Johansson e Ralph Fiennes ma c’è Clooney e questo basta per portare l’entusiasmo di pubblico e media alle stelle.
In Ave, Cesare! i Coen hanno trascinato tutti loro nello strampalato mondo di una commedia ambientata nella Hollywood degli anni Cinquanta. C’è chi la definisce un sequel di Barton Fink, Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1991. Forse, ma non è stata la nostalgia a motivare i due registi statunitensi.
«Non possiamo essere nostalgici nei confronti di un mondo che non abbiamo vissuto. Proviamo una sincera ammirazione verso il modo di lavorare rappresentato nel film anche se non lo condividiamo», ha spiegato Joel Coen.
Stranamente non è né su Hollywood né sul gossip che si concentra l’attenzione dei giornalisti presenti all’anteprima. Alla Berlinale ad irrompere è stata l’attualità e così, in un attimo, Clooney & Co. si sono ritrovati a rispondere a domande sui rifugiati politici, la guerra e le elezioni politiche.
Lo stesso destino era toccato qualche ora prima a Meryl Streep che credeva di essere la presidente della giuria di quest’anno per poi scoprire di essere considerata dai più una sorta di ambasciatrice dell’ONU, sollecitata a più riprese sulle questioni dell’uguaglianza sociale e sull’assetto geo-politico del mondo.
George Clooney, giubbotto nero di pelle e jeans, è di ottimo umore. Accetta di buon grado le prime domande, snocciola battute con estrema nonchalance e annuncia che in questi giorni incontrerà Angela Merkel per discutere la questione dei rifugiati politici.
Dinanzi all’insistenza di una giornalista anche Mr. Martini perde le staffe: «Capisco l’interesse legato al mio impegno politico ma non trovo giusto che una persona si alzi per puntarmi il dito contro e chiedermi cosa faccia io realmente per cambiare lo stato delle cose», ha tuonato.
L’ultima parola spetta a Joel Coen: «In quanto personaggi pubblici non abbiamo il dovere di soddisfare le richieste del pubblico che ci chiede di raccontare delle storie piuttosto che altre». Che senso ha prendersi così sul serio dinanzi ad un’arte da sempre intrisa di black humour ed estrema autoironia come quella dei registi in questione?
Alla stessa domanda risponde la scelta di scritturare Channing Tatum che prende posto tra i veterani senza nascondere l’entusiasmo: «Se i Coen chiamano si accetta la parte senza nemmeno leggere il copione!». Anche loro hanno sfruttato le sue doti da ballerino che lo hanno reso celebre prima al pubblico di Step Up e poi a quello più maturo di Magic Mike.
«Mi hanno tratto un po’ in inganno. Inizialmente non mi hanno svelato che il numero musicale di cui sono protagonista sarebbe durato sei minuti. Il ballo, il canto, non credo che mi sarei fidato di altri registi e non sono sicuro che lo farò in un futuro prossimo!».
Pubblicato originariamente su Vanity Fair Italia