Mentre in Italia esplodeva la Fantozzi-mania e Paolo Villaggio diventava parte del patrimonio nazionale, c’era un ragazzo che cresceva totalmente votato all’autodistruzione. Il suo nome è Pier Francesco (detto Piero), e di cognome fa Villaggio. Sì, il figlio di Paolo. I suoi problemi di droga balzarono agli onori della cronaca nel 1986 quando lo portarono addirittura all’arresto. Oggi, a 53 anni, Piero ha deciso che fosse arrivato il momento di rendere partecipi tutti delle sue vicende personali.
Lo fa attraverso le pagine del libro Non mi sono fatto mancare niente (in uscita il 9 febbraio, edito Mondadori). Il suo racconto, una travagliata iniziazione alla vita che passa dai Parioli all’India, da Los Angeles a San Patrignano, assomiglia tanto ad un soggetto dei fratelli Coen.
Gli elementi ci sono tutti: un protagonista di professione perdigiorno e l’ironia nonostante la cupa disperazione, la tossicodipendenza e i sensi di colpa, una morte inattesa e un percorso di riscatto incompiuto.
Il titolo non è sbagliato. Piero Villaggio ne ha fatte di ogni. Nel libro è ingeneroso verso se stesso ma anche feroce nei confronti di un padre che definisce «assente, egoista, megalomane» e per il quale, contrariamente al grande pubblico, ha faticato a provare simpatia.
Perché ha deciso di scrivere questo libro?
«Il libro è incentrato sugli anni della mia tossicodipendenza. Ho creduto a lungo che non interessassero a nessuno ma mia moglie mi ha convinto a proporre i miei racconti ad un editore. La Mondadori ha creduto nel progetto ma sono consapevole che se non mi chiamassi Villaggio l’interesse non sarebbe lo stesso».
Imputa molti dei suoi problemi a suo padre. Quali erano le difficoltà del vostro rapporto?
«Relazionarsi con lui è molto difficile. È una persona molto invadente ed egocentrica, come quasi tutti quelli che fanno il suo mestiere. La prima volta che sono riuscito a parlargli liberamente risale all’incirca a dieci anni fa, prima di allora non avevamo mai avuto una relazione padre-figlio canonica».
Suo padre ha già letto il libro? Cosa ne pensa?
«Sì, l’ha letto. Gli è piaciuto ma voleva darmi dei consigli. L’ho ringraziato ma gli ho risposto che credevo fosse la persona meno adatta a darmi delle indicazioni in questo frangente».
Non è stato molto generoso nei suoi confronti. Quanto è cambiato nell’arco degli anni?
«Continua ad essere una persona molto egoista. Oggi il nostro rapporto è facilitato perché lui ha quasi 84 anni, ha il diabete e, avendo condotto una vita molto sregolata, i segni della vecchiaia sono tutti visibili. La rabbia che ho nutrito per anni si è quasi trasformata in tenerezza».
Dopo tanti anni sarà anche stanco di sentir parlare di Fantozzi. Qual è la sua opinione del personaggio che ha reso suo padre un’icona?
«Sono sicuramente stanco di sentirne parlare ma capisco che faccia parte del gioco. I primi due Fantozzi mi piacciono molto. Gli altri li trovo meno validi. Ho ammirato mio padre in altri film, anche se hanno avuto meno successo. È stato molto bravo in Sistemo l’America e Torno di Nanny Loy e ne Il segreto del bosco vecchio di Ermanno Olmi».
Leggendo il libro ho avuto l’impressione che lei abbia ristabilito il contatto con la realtà durante la sua permanenza nella comunità di San Patrignano. Sbaglio?
«Ha ragione. Quando sono arrivato avevo veramente poca capacità di intendere e di volere, ero viziato e molto condizionato dalla tossicodipendenza. Pur avendo contestato in seguito la violenza dei suoi metodi, devo ammettere che Vincenzo Muccioli (il fondatore della comunità di San Patrignano, n.d.r.) è stato l’unico ad aiutarmi».
Dopo il recupero dalla dipendenza è riuscito a laurearsi con ottimi voti e ad avviare la carriera di fotoreporter, eppure nel libro si definisce un fallito. Come mai?
«Il mio rapporto con l’eroina è cominciato prestissimo, avevo 17 anni. La mia passione è stata quasi interamente consumata dalla dipendenza. Se a questo aggiungiamo il fatto che non ho mai avuto necessità di lavorare per mantenermi capirà che è stato difficile trovare la mia strada. È vero, ho amato lo studio e la fotografia ma la verità è che non sono mai stato coerente e se sposti la sua attenzioni di continuo non approfondisci mai quello che sai fare veramente».
Non dipenderà dal fatto che suo padre reputa le persone ordinarie dei falliti?
«Nella vita ho imparato che le soddisfazioni non dipendono necessariamente dal fatto di diventare dei numeri uno, come pensa lui. Altrimenti le persone felici sarebbero pochissime. Ma il confronto con un artista ingombrante come mio padre mi ha inevitabilmente condizionato. Non mi sono mai sentito all’altezza ed è forse per questo che oggi mi ritengo insoddisfatto».
Si è sposato nel 2004, mai avuto voglia di diventare papà?
«Io e mia moglie avremmo tanto voluto ma non è capitato. Più passano gli anni e più mi manca. Credo che un figlio possa completare la vita di un uomo».
Ha mai pensato invece di aiutare chi ha affrontato i suoi stessi problemi di tossicodipendenza?
«Pur essendo riuscito a superare la dipendenza non mi sono mai sentito in grado di elargire consigli. È una responsabilità che non credo di potermi assumere. Per aiutare gli altri bisogna prima risolvere i propri problemi e io ne ho risolto solo alcuni».
Pubblicata originariamente su Vanity Fair Italia