La gioia per la nascita del terzo figlio è coincisa con il successo dello spettacolo Vita, Morte e Miracoli, che torna in scena dal 14 al 31 gennaio al Teatro della Cometa di Roma. A quarant’anni da compiere Francesco Venditti, figlio di Antonello Venditti e Simona Izzo, sembra aver trovato il suo equilibrio. Da ragazzino ha scelto di non imbracciare la chitarra ma di dedicarsi alla recitazione e al doppiaggio, tradizione di famiglia cominciata con i suoi nonni e proseguita dalla sue zie.
Oggi a guidarlo non è solo l’ambizione ma la volontà di concentrarsi su progetti che possano renderlo orgoglioso e sorprendere il pubblico. La popolarità non gli interessa, quasi lo spaventa. A seguire le orme di nonno Antonello potrebbe pensarci il suo secondogenito, ci racconta, ma forse gli converrebbe cambiare quel cognome ingombrante che a lui ha garantito tanti privilegi ma anche qualche frustrazione.
In Vita, Morte e Miracoli interpreta Emanuele, cosa può svelarci di questo personaggio?
«Non voglio rovinare la sorpresa al pubblico perché il mio è il ruolo che riserva più colpi di scena dall’inizio alla fine di uno spettacolo che tocca temi universali come l’amicizia, l’amore, la fratellanza, la quotidianità. E’ un’esperienza a cui sono particolarmente legato perché gli attori con cui recito sono miei amici e perché nel frattempo è nato il mio terzo figlio Leonardo».
Secondo lei, come mai lo spettacolo ha avuto così tanto successo in un periodo di grande crisi per il teatro italiano come questo?
«Continuano a chiedermelo ma non lo so. Il successo non è una cosa che puoi accordare prima. Per me il numero degli spettatori non è importante quanto ciò che trasmetti loro. E’ la differenza che c’è tra popolarità e successo. La prima svanisce, il secondo resta».
Lo spettacolo pone il pubblico di fronte a grandi quesiti. Lei in che cosa è disposto a credere?
«Credo che si può vivere senza cercare di cambiare le persone che si hanno accanto, accettandole per quello che sono e amandole per ciò che le abbiamo scelte. Credo nella solidarietà e nella fratellanza, nell’aiutarsi e nell’entrare in contatto sia nel bene che nel male. E credo soprattutto che sia giusto tenere conto più dei momenti migliori che non di quelli peggiori».
Le esperienze teatrali, dal 2012 ad oggi, hanno coinciso con una pausa dal cinema e dalla televisione. E’ stata una scelta?
«Ho deciso di dedicarmi principalmente al teatro e al doppiaggio. Sono ambizioso ma ho deciso di prendermi del tempo per capire in che direzione sta andando l’intrattenimento. Ho bisogno di comprendere se posso riuscire ad adattarmi al cambiamento o meno. Ammetto che negli ultimi tempi non mi è stata data l’opportunità di fare cose diverse rispetto a quelle in cui mi ero già cimentato».
Che cosa le sarebbe piaciuto fare?
«Mi sarebbe piaciuto far parte del cast di Noi e la Giulia, Smetto quando voglio o della serie In Treatment di Saverio Costanzo con cui ho condiviso un pezzo di vita insieme quando mia madre era la compagna di Maurizio. Ho amato anche Suburra ma un ruolo in quel film non si sarebbe distaccato molto da ciò che ho fatto in Romanzo Criminale. Mi piacerebbe mettere la pistola sotto il cuscino e interpretare un prete ma nella vita non succede sempre tutto ciò che vorremmo».
Quest’anno compirà 40 anni. Più di vent’anni fa, quando ha cominciato a muovere i primi passi nel mondo dello spettacolo, che aspettative aveva?
«Io nella vita ho imparato a non aspettarmi niente, né dalle persone né dai progetti ma sono sempre stato molto ambizioso. Da artista, sento ogni giorno una grande esigenza di esibirmi, di andare in scena. Forse avrei dovuto fare altre scelte ma la vita di un attore è talmente lunga che non si può mai dire. Quindi l’unica cosa che mi aspetto è il futuro».
E la popolarità è mai stata un obiettivo da raggiungere?
«Mi faceva paura ma non perché non mi sentissi all’altezza. Non mi piace il fatto che le persone pensino di conoscerti. Se qualcuno mi riconosce per strada preferisco prendere un caffè insieme piuttosto che firmare un autografo. Poi la popolarità nella vita di tutti i giorni non mi è mai mancata. Già dalle elementari ero per tutti il figlio di Venditti. All’inizio mi nascondevo, poi con gli anni ho imparato ad esserne orgoglioso».
Essere un figlio d’arte è stato più un limite per lei o per gli altri?
«Sarei un folle a chiamarlo limite. E’ stato e continuerà ad essere un grande privilegio. Forse non mi ha permesso di entrare nel cuore della gente. Non immagina che fastidio quelle persone con cui trascorri una serata intera e poi ti dicono ‘Ma lo sai che non ti ci facevo così!’. Questi sono i pregiudizi che ti mandano dallo psicanalista».
C’è andato per davvero?
«Sì, certo. Io sono per la psicanalisi. Mi è servita nei momenti più difficili della mia vita come il periodo della separazione e del divorzio dalla mia prima moglie. E’ come prendere una laurea su se stessi. Ho fatto le mie scelte, non me ne pento ma sono arrivato ad un momento della mia vita che posso piangere davanti a una puntata di Grey’s Anatomy!».
Pubblicato originariamente su Vanity Fair Italia