E’ molto più arzillo di quanto non creda Franco Maresco che ho intervistato in occasione della premiere di Gli uomini di questa città io non li conosco. Il regista palermitano dedica il suo documentario a Franco Scaldati, una delle voci più significative del teatro della seconda metà del novecento europeo. Le sue opere, ferocemente anticonvenzionali, vedevano protagonista un’umanità ai margini, sconfitta, la cui essenza era già in via di estinzione. Una voce forte contro l’ipocrisia, “una poesia violenta” rimasta inascoltata fino al 2013, anno della sua scomparsa.
Come lo scorso anno, quando trionfò nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia con Belluscone – Una storia siciliana, Maresco ha scelto di rimanere a casa ma, a telefono, mi sembra comunque ansioso di spiegare al mondo le ragioni del suo impegno e, al contempo, il suo disgusto nei confronti di una società che è perfino peggiorata dai tempi di Cinico TV, il rivoluzionario programma televisivo che aveva ideato insieme al collega Daniele Ciprì. La domanda, oggi come allora, è sempre la stessa: “Perché l’uomo è un pezzo di merda?”.
Gli uomini di questa città io non li conosco. Franco Scaldati è un doveroso omaggio al suo mentore?
Diciamo che è un omaggio a una figura che dovrebbe essere riconosciuta dall’Italia intera e non solo dalla Sicilia. Franco cominciò ad essere noto ai teatranti già nei primi anni Settanta, negli anni in cui si credeva che la cultura avrebbe salvato il mondo. Il fatto che ancora oggi sia pressoché sconosciuto conferma la smemoratezza di un paese alla deriva che dà invece spazio a ben altre figure. Detto ciò il film è anche un omaggio che rendo ad un mio carissimo amico, più grande di me di una quindicina d’anni e che per me è stato un punto di riferimento, colui che mi ha aiutato a mettere a fuoco quello che avevo dentro e a trovare una mia cifra personale. Vedere Il pozzo dei pazzi, che viene ritenuto il suo capolavoro, mi ha folgorato.
Considerando il triste epilogo della sua vita in un’Italia che mai gli riconobbe il suo immenso talento, crede che se fosse nato oggi Scaldati sarebbe un cervello in fuga?
Capisco il paradosso della domanda ma Scaldati era un appartato, un uomo timido e umorale. Come tutti i veri poeti avvertiva un senso di inadeguatezza rispetto a ciò che succedeva. Nei suoi spettacoli c’erano momenti di grande divertimento ma, a mano a mano che ci inoltravamo nelle tragedie palermitane, verificavamo entrambi questa apatia, quest’indifferenza che è un cancro nazionale. Questo faceva aumentare quel senso di estraneità nei confronti di un mondo che non credo non capisse ma che più semplicemente non gli interessava. Sicuramente oggi non si ritroverebbe in questo paese che ti soffoca, ti priva delle energie vitali, delle speranze. E’ quanto è successo a molti degli storici artisti che sono rimasti perché credevano in un cambiamento che non è mai avvenuto.
Lei ha dichiarato che probabilmente Cinico TV non sarebbe mai nato senza l’influenza di Scaldati. Il vostro era umorismo o comicità?
Scaldati ha portato in scena un lingua palermitana che aveva reinventato. Era una sorta di combinazione tra la commedia dell’arte e la tradizione dei pupari. Ha coniugato l’antico e il moderno avendo un grandissimo senso della comicità influenzato dalle forme di intrattenimento popolari come il fumetto, i romanzi gialli e il cinema, specie quello di Peppino e di Franco e Ciccio. Noi verso la fine degli anni Ottanta abbiamo ripreso la sua visione estremizzandola con un grande senso del grottesco e della disperazione.
Voi come trovavate i personaggi protagonisti degli episodi di Cinico TV e soprattutto come le persuadevate a prestarsi a degli sketch spesso raccapriccianti?
Come Scaldati non amavo gli attori professionisti ma dei volti, delle voci su cui fosse possibile lavorare perché vergini e privi di sovrastrutture. Solo attraverso di essi era possibile recuperare l’idea di un mondo perduto. Non li cercavamo sapendo che erano gli unici testimoni di una realtà che si sarebbe estinta di lì a poco. Avevamo instaurato con loro un rapporto di fiducia per cui era un gioco di cui loro non solo erano consapevoli ma che diventava per loro stessi una sorta di riscatto. Oggi sarebbe impossibile anche a livello antropologico visto che le facce di Pasolini si sono evolute in un’umanità plastificata, occhi ipnotizzati da uno smartphone. Non esiste più la relazione umana.
Perché Cinico TV non smette di apparire ancora oggi una trasmissione scandalosa?
Credo che si tratti di cattiva coscienza. Ho sempre trovato molto ipocrite le reazioni al lavoro mio e di Ciprì. Non dobbiamo dimenticare che la tradizione degli antichi romani, del panem et circenses è stata tramandata fino ad arrivare negli anni Novanta nel salotto di Maurizio Costanzo. Lo criticavano ma ci andavano tutti, sinistra compresa per rispondere all’esigenza di apparire. Quello che accade oggi con Bruno Vespa: lo si detesta però nessuno vuole rimanere escluso da quel salotto.
Voi che novità avete rappresentato?
Cinico Tv ha smascherato l’ipocrisia e l’omertà di un Paese di cui era lo specchio deformante. L’Italia di Tangentopoli che sarebbe poi diventata quella di Berlusconi, che mi fa quasi tenerezza perché lo ritengono responsabile di aver rovinato l’Italia quando invece è solo il risultato culturale e antropologico di una cialtroneria che è sempre esistita. Mi fa ridere pensare al pubblico delle 20 che impallidiva di fronte a Cinico TV mentre l’Italia si preparava a nefandezze che il nostro a confronto era un asilo nido! Il nostro Sud non era quello goliardico di Renzo Arbore ma quello che si preferirebbe chiudere gli occhi e non vedere.
Che ruolo hanno svolto i cosiddetti professionisti dell’antimafia nello sviluppo o nella regressione della realtà siciliana?
Io sono un pessimista ma anche questo mio ultimo lavoro prova il fatto che io non ho voglia di arrendermi e che continuo a sperare che qualcosa possa comunque cambiare, almeno con i giovani. Credo che Sciascia avesse ragione quando intuì che anche l’antimafia sarebbe diventata una forma di spettacolo, di narcisismo. Basti pensare anche alle ultime intercettazioni di Mario Crocetta relative alla cacciata di Lucia Borsellino, che era assessore alla cultura della sua giunta. Qui a Palermo tutti si sono indignati. Ma le pare normale che il 19 luglio ci fossero solo 50 palermitani a commemorare la strage di Via d’Amelio? O che la lapide di Dalla Chiesa giaccia in uno stato di completo abbandono?
Cosa si fa oggi concretamente per la cultura in Sicilia? Non è cambiato nulla dai tempi di Scaldati?
Non sono un grande conoscitore dei vari bandi che vengono indetti per l’assegnazione dei fondi per i beni culturali. C’è stata un’epoca in cui in Sicilia c’è stata un’allegria senza limiti, ove c’era una situazione politica che consentiva determinate pratiche mafiose. Oggi mi sembra siano aumentati i controlli, i commissariamenti e anche attenzioni da parte del popolo. Eppure le risponderei con le parole di Scaldati: “Puoi fare tutto quello che vuoi ma l’uomo ha radicato dentro di sé il male”. Questo per dire che il mondo sarebbe meraviglioso se non ci fosse l’uomo…
Ha sempre sostenuto che i personaggi di Cinico TV non erano espressione di una denuncia sociale ma del vostro disgusto nei confronti dell’umanità. E’ andato crescendo nel corso degli ultimi anni?
Certo. Il mondo solo in parte può migliorare con la cultura. Io credo che l’uomo debba violentarsi dentro per non esercitare il male, andando contro natura. In questo senso Cinico TV trasfigurava la realtà, diventando metafora della natura umana universale, utilizzando il sarcasmo e il tragicomico. Ho pensato a lungo di fare un film per raccontare la storia dell’umanità. Il titolo sarebbe stato: “Perché l’uomo è un pezzo di merda?”.
Quanto il linguaggio di Cinico TV è stato influenzato dalla letteratura siciliana e quanto invece dal punk?
Punk non direi proprio. Ad averci influenzato sono stati prima di tutti Pirandello e Vitaliano Brancati. Tutti i letterati siciliani hanno una forte componente pessimistica che noi abbiamo ereditato, più io che Ciprì che non la condivide per natura. L’umorismo e la comicità di Pirandello mi sono sembrate alcune delle cose più grandiose delle letterature del Novecento. Sciascia era più un saggista, un pensatore ma c’era anche in lui la componente grottesca a cui ci siamo rifatti.
Avete sempre girato in pellicola. Quali sono gli svantaggi del digitale?
In realtà non è sempre stato così anche se la nostra passione è sempre stata girare in pellicola. Sentivo che il cinema fosse al capolinea e avvertivo l’ansia di consumare tutto nel più breve tempo possibile. In questo senso mi fa molto ridere ascoltare le interviste di Daniele Ciprì che all’epoca era un grande fan del digitale mentre oggi fa film con gli attori dello star system. Evidentemente si sente un po’ in colpa e tromboneggia dicendo di voler fare dei film che siano percepiti come dei vecchi dischi in vinile. A me il digitale ha sempre fatto orrore.
Le fa orrore anche la mondanità visto che sono due anni che non ci onora della sua presenza alla Mostra del Cinema di Venezia?
Sì, ha detto bene. Lascio il piacere della mondanità a Daniele Ciprì che da timido si è trasformato in un vero uomo di mondo. Io sono loquace ma mi sento sempre fuori posto. Il senso di inadeguatezza mi perseguita persino nel quartiere dove vado a fare la spesa. Una volta ero più giovane e avevo più energie e quando mi capitava di venire ai festival era sempre troppo faticoso. Venezia è un festival importante perché dà la possibilità di parlare anche a film come il film ma è un’esperienza per me terrificante. Non fa per me. Andare sul red carpet, dove c’è gente che farebbe carte false per essere, mi fa sentire ridicolo così come mi appaiono ridicole le persone che osservano me che mi rendo ridicolo.
Altro da aggiungere?
Guardi con voi de Il Giornale mi sembra di giocare fuori casa ma devo ammettere che leggendo Indro Montanelli mi avventurai prima nei suoi articoli, nei suoi libri e successivamente in quelli dei suoi punti di riferimento. Devo anche confidarle che quando ero ragazzo correvo in edicola a comprare Il Giornale solo per leggere Controcorrente, mi divertivo come un matto! Ero libero, vivace e ribelle e non mi piaceva l’indottrinamento di quella che Montanelli stesso definiva “la Chiesta del Partito Comunista”. Trovavo molto stimolanti e interessanti gli scritti di Leo Longanesi e Giuseppe Prezzolini, che si era autoesiliato in Svizzera dopo essere stato un grande intellettuale dell’Italia giolittiana. Erano moderatamente conservatori e mi affascinavano nonostante io appartenessi all’altra parte politica. Sia chiaro, niente a che vedere con la destra di oggi, quelli erano pensatori con una tradizione risorgimentale di grandissima levatura.
Pubblicato originariamente su Il Giornale OFF